“In Stirner c’è una concezione del superamento legata alla dimensione hegeliana. In Hegel il concetto di superamento (Aufhebung), è un concetto dialettico, in cui la dimensione superiore riassume e annulla nell’àmbito della sintesi, appunto per sua natura superiore, quelle che prima erano la tesi e l’antitesi. L’unico riassume, con tutte le sue capacità, questo concetto: il concetto di movimento, di ribellione come superamento. È possibile in effetti un superamento? Oppure oggi – specialmente dopo le dolorose vicende del secolo scorso – le guerre, i genocidi, non soltanto passati, ma presenti, quello che la realtà ci pone sotto gli occhi continuamente (pensate alla situazione dei paesi della ex-Jugoslavia), la miseria, la spaventosa mostruosità umana, che cosa l’uomo è capace di fare, cose che sembravano scomparse per sempre e che invece ritornano sistematicamente sotto gli occhi di tutti, oppure oggi si deve per forza concludere con l’idea che niente viene effettivamente superato? Di certo, nel senso hegeliano, un vero e proprio superamento non è possibile.
Cosa si nasconde dietro il concetto di Aufhebung, di superamento dialettico del reale, se non il tentativo spaventosamente ideologico di nascondere la barbarie in nome di un progresso definito che viaggia tranquillamente verso i futuri destini gloriosi dell’umanità. Quando Giovanni Bovio diceva: “Il futuro è l’anarchia”, faceva un’affermazione di fede, esprimeva un desiderio sotto forma affermativa. Nulla di più. Chi può garantire che il futuro sia dell’anarchia e della libertà? Invece il futuro continua, come il presente, a riservare terribili condizioni di mostruosità, di oppressione, di sfruttamento, che sembravano scomparse per sempre.
Non possiamo pertanto accettare il concetto di movimento, di superamento, il concetto del ribelle che supera la propria condizione e che porta dentro di sé e costruisce, e realizza, un mondo definitivamente liberato. Ma continuamente in lui c’è un mondo che conquista e perde la libertà, che la riconquista e la perde ancora una volta, che può sempre riconquistarla e riperderla, perché in effetti non possiamo utilizzare il concetto hegeliano di Aufhebung, ma dobbiamo sostituirlo con il concetto niciano, heideggeriano, di Überwindung, di oltrepassamento. Io spenderei, se mi consentite, una parola su questa radicale differenziazione.
Pensante che il concetto di Übermensch, utilizzato da Nietzsche, è stato sempre tradotto con la parola “superuomo”. Ora, di certo, non è accettabile l’ipotesi di sostituire questa traduzione con una più adeguata, più esatta. Almeno per quel che riguarda l’àmbito delle opere di Nietzsche, la parola “superuomo” deve restare così com’è, se non altro in nome di un secolo di errato lavoro filologico e di pratico utilizzo del termine, con tutti i suoi equivoci. Ma, almeno in sede di analisi, uno sforzo si può fare. Il significato esatto del termine niciano Übermensch, non è quello di “superuomo”, ma di “oltreuomo”. Difatti non c’è niente che superi l’uomo, nel senso hegeliano. C’è però qualcosa che può andare oltre l’uomo e, se pensiamo che in tedesco Unmensch vuol dire “mostro”, “disumano”, ma particolarmente “mostro”, abbiamo allora un rapporto tra Unmensch e Übermensch, tra “disumano” e “oltreuomo”. Nel mezzo c’è il concetto di Überwindung, ossia di “oltrepassamento”. “Oltrepassamento” significa pertanto un particolare modo di superamento, modo in cui nulla viene superato, in cui nulla scompare, ma quel Windung in tedesco vuol dire esattamente “contorcimento”, qualcosa che non riesce a stare fermo a causa di una pulsione interna, una specie di “muoversi nel bisogno” nel tentativo di star meglio, come di un malato che si giri nel letto del proprio dolore, ed è questa Not, questo bisogno che caratterizza il concetto di oltrepassamento. L’uomo non si ribellerebbe se non avesse questo stimolo del bisogno. […] Questi concetti che ci vengono dalla filosofia successiva a Stirner sono importanti anche per capire Stirner. In fondo però la cosa più importante per noi non è tanto capire Stirner, filosofo fra i filosofi che, al momento opportuno, dobbiamo per forza mettere da parte, quanto capire la realtà in cui viviamo, decidere cosa possiamo fare, come possiamo agire. Adesso possiamo capire che legandoci a un concetto standardizzato di superamento dialettico, nel senso hegeliano, diventiamo più tranquilli (Bovio, la storia, ecc.): la realtà lavora al nostro posto, la talpa scava, dobbiamo solo aiutarla. A causa di questa maggiore tranquillità, possiamo anche restare alla finestra e aspettare che qualcuno si ribelli al nostro posto.
Invece, se partiamo dal concetto che il “mostro” sta accanto a noi, è vicino a noi, sta dentro di noi, se non facciamo attenzione a che questo “mostro” non si impadronisca di noi e di quelli che stanno accanto a noi, vicino a noi, non possiamo veramente discutere e parlare in termini di rivolta dell’individuo, e non possiamo fondare in modo corretto, oltre che operativamente significativo, la distinzione tra rivolta e rivoluzione. Perché tutto quello che Stirner esprime nei riguardi della rivoluzione, nella dimensione del superamento hegeliano, ricade sulla rivolta, annulla la rivolta e la riconduce a una dimensione istituzionalizzata. In effetti, non è il “sonno della ragione a generare mostri”, quanto la ragione stessa. Adolf Hitler, i nazisti, non erano soli, avevano a fianco la gran parte dei Tedeschi che aspettavano senza reagire che si sviluppasse una gestione del potere estremamente mostruosa, ed erano persone molto razionali, molto hegeliane. Alfred Rosenberg e il nostro Gentile, con il suo famoso discorso di Palermo sulla “virtù morale del manganello”, erano persone ragionevolmente hegeliane. Quindi, se questa coabitazione col mostro è chiara davanti a tutti, non bisogna per questo abituarsi al mostro, familiarizzare col mostro, ma dobbiamo fare qualcosa perché questo “mostro” resti se non altro circoscritto e venga conosciuto, denunciato, capìto nei limiti del possibile, e non semplicemente dimenticato, trascurato, o peggio edulcorato, vestito con gli abiti del progressismo democratico.
Se dobbiamo fare questo, dobbiamo anche cercare di capire che abbiamo un compito nella rivolta che non è soltanto quello di trovare un esempio storico, ma quello di cercare il metodo. E il metodo della rivolta è quello di puntare alla differenza, trovare quello che è differente, non solo quello che è differente da noi, ma quello che è differente dalle convenzioni che ci vengono imposte come uniformazione dell’esistente, come amministrazione del già dato, del già acquisito. E questa ricetta della differenza è una ricetta che ci può portare molto lontano, in quanto in fondo ognuno di noi ha paura della differenza.
Quali sono gli strumenti che ci permettono di operare questa ricerca sulla differenza? Certamente non la ragione. Questo non vuol dire che bisogna essere irragionevoli, lasciarsi andare soltanto al sentimento, al giorno per giorno, essere privi di qualsiasi progettualità per il futuro, ma al contrario che bisogna alimentare sospetti nei confronti della ragione. Per cui non possiamo accettare la ragione come unico strumento di guida nella costruzione del nostro futuro, nella costruzione della nostra ribellione, nella dimensione rivoluzionaria che può essere costruita al di là della rivolta.
Quindi ricerca della differenza, ma ricerca della differenza attraverso quelle che Blaise Pascal definiva “le ragioni del cuore”. “Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende, bisogna allora fare nostre le ragioni del cuore”, diceva. Queste ragioni del cuore ci fanno capire che c’è una simpatia per l’altro, però questa simpatia ci porta a far vedere che nell’altro, nel diverso, c’è qualcosa anche di noi, qualcosa che riusciamo a leggere in filigrana, mentre in noi la lettura di questo “qualcosa” risulta più difficile perché ci sono le “cristallizzazioni dei fantasmi” di cui parlava Stirner che la impediscono. Nei confronti degli altri siamo spesso molto più vigili. Ma, se noi limitiamo la lettura dell’altro, in quanto differente da noi, per paura, per conformismo, per accettazione del di già dato, la capacità di identificare la differenza non l’abbiamo più.
Adesso però un ultimo punto: se la conoscenza dell’altro, nell’àmbito dell’egoismo stirneriano della costruzione dell’unico in base a quello che si è detto prima, è ricerca della differenza, in fondo, se noi esaminiamo (su questo concetto si badi bene c’è tutto un dibattito oggi, e anche abbastanza controverso), se noi esaminiamo, dicevo, il concetto di differenza, restiamo sempre nell’àmbito del quantitativo. Riflettete un attimo su questa affermazione. Apparentemente la differenza si presenta come concetto qualitativo, ma la nostra coscienza cataloga immediatamente tutti questi segnali in arrivo, li trasforma in senso quantitativo, li colloca in una dimensione del di già conosciuto: cioè, in altri termini, che cosa fa? Se questo è diverso, dice la coscienza, io non lo capisco, però, entro certi limiti, lo catalogo e lo accetto. Perché lo accetto? Perché sono tollerante, perché il diverso non va respinto, perché il nero non deve fare paura, perché il razzismo è condannabile, ecc., io riassumo tutti questi concetti e li catalogo. Ma cosa sono tutti questi concetti? Sono fantasmi. L’antirazzismo è un fantasma. Com’è che tutto questo può non diventare un fantasma? […]Noi siamo ancora razzisti quando tentiamo di fare diventare il nero come noi, civilizzato come noi. Questo è razzismo. Non solo il razzismo del nero linciato, ma è razzismo anche il nero abbassato al livello della nostra civiltà presunta superiore. Questo è anche razzismo. Quindi, il mostro che dorme nel nostro stesso guanciale è molto più complesso di quanto non si trovi nelle schematizzazioni delle santità.
Ognuno con le sue diverse differenze. Perché il primo movimento della rivolta è la ricerca della differenza. Il nero è nero, non è bianco. Cercare di farlo diventare bianco è razzismo.
Nel momento in cui io non mi limito alla ricerca della differenza, ma faccio il passo successivo e fondamentale, travalico dalla differenza all’affinità, cerco di capire che cosa nella differenza c’è di simile a me, di affine a me, che cosa posso costruire con l’altro. Non solo quindi ricerca della differenza, il che sarebbe ancora un agire circoscritto in direzione quantitativa, e quindi ulteriore, tediosa, ricerca del fantasma, ma dimensione della ricerca dell’affinità: struttura finalmente libera del pensiero (entro certi limiti poiché il “mostro” coabita sempre là vicino a noi, si corica e dorme sul nostro stesso guanciale), capace di costruire insieme agli altri qualcosa nell’affinità.
Quindi, se la ricerca dell’affinità come incontro è fondamento, significato, lettura essenziale della differenza, rifacendo il percorso inverso e rileggendo dall’inizio il discorso de L’unico e la sua proprietà, la costruzione dell’unico è possibile solo nella ricerca dell’altro e nell’affinità con l’altro. Qui non regge, secondo me (credo di essere il solo a sostenere una tesi del genere, quindi pensate un poco quanto può essere accettata dagli altri), qui non regge l’annoso e inutile dibattito diretto a fissare una discriminante separazione tra comunismo e individualismo. Perché, se l’individualismo è difesa dell’individuo e costruzione dell’unico, accennata in modo splendido e considerevolmente approfondito da Stirner, se l’individualismo stirneriano significa tutto questo, lo significa perché in fondo non si differenzia dal concetto di comunismo anarchico, perché se lo sbocco dell’individuo visto da Stirner, se l’unico significa libertà dell’individuo, anche il comunismo anarchico significa libertà dell’individuo. Qualunque altra definizione di comunismo ha soltanto il significato di oppressione e di sfruttamento.”
[Conferenza tenuta all’Università di Firenze, Facoltà di Filosofia, il 13 gennaio 1994. Trascrizione della registrazione su nastro]
Estratto dal testo “Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio” di Alfredo M. Bonanno