Barbari – Senza una ragione

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“Oggi i barbarbi non si accampano più alle porte della Città. Si trovano già al suo interno, essendovi nati. Non esistono più le fredde terre del Nord o le brulle steppe dell’Est da cui fare partire le invasioni. Bisogna prendere atto che i barbari provengono dalle fila degli stessi sudditi imperiali. Come a dire che i barbari sono dappertutto. Per le orecchie abituate all’idioma della polis è facile riconoscerli perché si esprimono balbettando. Ma non bisogna lasciarci ingannare dal suono incomprensibile della loro voce, non bisogna confodere chi è senza una lingua con chi parla una lingua diversa. Molti barbari sono infatti privi di un linguaggio riconoscibile, resi analfabeti dalla soppressione della propria coscienza individuale — conseguenza dello sterminio del significato attuato dall’Impero. Se non si sa come dire, è perché non si sa cosa dire; e viceversa. E non si sa cosa e come dire perché tutto è stato banalizzato, ridotto a mero segno, ad apparenza. Considerato una delle maggiori sorgenti della rivolta, fonte irradiante di energia, nel corso degli ultimi decenni il significato è stato eroso da tutta una schiera di funzionari imperiali (ad esempio dalla scuola strutturalista francese tanto cara ai due emissari[1]) che lo hanno frantumato, polverizzato, sbriciolato in ogni ambito del sapere. Le idee che interpretano ed incitano all’azione trasformatrice sono state cancellate e rimpiazzate dalle opinioni che commentano e inchiodano alla contemplazione conservatrice. Laddove prima c’era una giungla piena di insidie perché selvaggia e rigogliosa, è stato fatto il deserto. E cosa dire, cosa fare in mezzo al deserto? Privi di parole con cui esprimere la rabbia per le sofferenze subite, privi di speranze con cui superare l’angoscia emozionale che devasta l’esistenza quotidiana, privi di desideri con cui contrastare la ragione istituzionale, privi di sogni a cui tendere per spazzare via la reiterazione dell’esistente, molti sudditi si imbarbariscono nei gesti. Una volta paralizzata la lingua, sono le mani a fremere per trovare sollievo alla frustrazione. Inibita nel manifestarsi, la pulsione alla gioia di vivere si capovolge nel suo contrario, nell’istinto di morte. La violenza esplode ed essendo senza significato si manifesta in maniera cieca e furiosa, contro tutto e tutti, travolgendo ogni rapporto sociale. Laddove non c’è una guerra civile in corso, ci sono i sassi lanciati dai cavalcavia oppure lo sterminio di parenti, amici o vicini. Non è una rivoluzione, non è nemmeno una rivolta, è una strage generalizzata compiuta da sudditi resi barbari dalle ferite quotidiane inflitte sulla propria pelle da un mondo senza senso perché a senso unico. Questa violenza cupa e disperata infastidisce l’Impero, turbato nella sua presunzione di garantire la pace dei sensi, ma non lo preoccupa. In sé, non fa altro che alimentare e giustificare la richiesta di maggior ordine pubblico. Eppure, per quanto facilmente recuperabile una volta affiorata in superficie, essa mostra tutta l’inquietudine che agita in profondità questa società, tutta la precarietà della presa imperiale sulle vicissitudini del mondo moderno. E tuttavia esistono anche altri barbari, di natura diversa. Barbari in quanto refrattari alle parole d’ordine, non certo in quanto privi di coscienza. Se il loro linguaggio risulta oscuro, noioso, balbettante è perché non coniuga all’infinito il Verbo imperiale. Sono tutti coloro che rifiutano deliberatamente di seguire l’itinerario istituzionale. Hanno altri sentieri da percorrere, altri mondi da scoprire, altre esistenze da vivere. Alla virtualità — intesa come finzione — della tecnologia che nasce in sterili laboratori, oppongono la virtualità — intesa come possibilità — delle aspirazioni che nascono nei battiti del cuore. Per dare forma e sostanza a queste aspirazioni, per trasformarle da virtuali in reali, devono strappare all’Impero con la forza il tempo e lo spazio necessari alla loro realizzazione. Devono, cioè, riuscire ad arrivare ad una rottura integrale con l’Impero. Anche questi barbari sono violenti. Ma la loro violenza non è cieca nei confronti di chi colpisce, quanto piuttosto nei confronti della ragione imperiale. Questi barbari non parlano e non capiscono la lingua della polis, né vogliono impararla. Non sanno cosa farsene della struttura sociale dell’Impero, della costituzione americana, degli attuali mezzi di produzione, dei documenti di riconoscimento o del salario sociale a cui tanto tengono i due emissari. Non hanno nulla da chiedere ai funzionari imperiali, non hanno nulla da offrire loro. La politica del compromesso è abortita in partenza, e non per un ridicolo processo ideologico, ma per una totale inadeguatezza a questo mondo. Sanno solo che per realizzare i propri desideri, quali che siano, devono prima togliere di mezzo gli ostacoli che incontrano sul proprio cammino. Non hanno tempo di chiedersi come mai «il capitalismo è miracolosamente ancora vivo e vegeto e la sua accumulazione è più gagliarda che mai», come si attardano comicamente a fare i due emissari, sconcertati che la storia si rifiuti di funzionare assecondando gli oliati meccanismi di una macchina. Il «mistero della longevità del capitale» non riesce ad appassionare questi barbari tanto quanto l’urgenza della sua morte. Per questo sono pronti a mettere a ferro e a fuoco le metropoli — con le loro banche, i loro centri commerciali, la loro urbanistica poliziesca — in qualsiasi momento, individualmente o collettivamente, alla luce del sole o nel buio della notte. Se non hanno un solo motivo per farlo, è perché li hanno tutti. Contrariamente ai sudditi scontenti che vorrebbero diventare sudditi contenti, a questi barbari non interessa la possibilità di un altro mondo. Preferiscono battersi perché pensano che un mondo altro sia possibile. Sanno che “un altro mondo” sarà come “un altro giorno”, la vuota e noiosa ripetizione di quello che lo ha preceduto. Ma un mondo altro è un mondo sconosciuto tutto da fantasticare, da creare, da esplorare. Essendo nati e cresciuti sotto il giogo imperiale, senza avere mai avuto la possibilità di sperimentare modi radicalmente diversi di vivere, non è possibile immaginare questo mondo altro se non in termini negativi, come un mondo senza denaro, senza legge, senza lavoro, senza tecnologia e senza tutti gli innumerevoli orrori prodotti dalla civiltà capitalista.”

Crisso/Odoteo – Barbari/ L’insorgenza disordinata.pdf

[1] Il testo fa riferimento ai due teorici Negri e Hardt

Sullo sgombero di Boreano

Ci giunge notizia dello sgombero e della distruzione delle baracche a Boreano tenutosi da ieri mattina ove risiedevano i migranti occupati nella raccolta stagionale del pomodoro. Tale sgombero portato avanti a colpa di ruspa – che va concretizzando il triste slogan salviniano e dei suoi beceri sostenitori – ha visto un ingente spiegamento delle forze dell’ordine e dell’esercito. L’operazione giunge proprio nel momento in cui la lotta dei lavoratori stagionali stava prendendo piede e giungendo alle orecchie dei più, lotta tesa a ricevere uno stipendio e un’abitazione che potesse garantirgli l’inizio di una vita un po’ più dignitosa. Crediamo che queste azioni da parte dell’amministrazione comunale non siano altro che la prosecuzione di politiche xenofobe e razziste, le quali impediscono ai lavoratori di vivere secondo i propri bisogni, ove da parte delle istituzioni l’unica risposta è la repressione; vista anche sotto il palazzo della Regione durante la manifestazione del 12 maggio con l’esagerato schieramento delle FO. Le stesse istituzioni che garantiscono ad ess* l’accoglienza per poi usarl* come mano d’opera a bassissimo costo e/o internarl* in strutture dove subiranno torture, percussioni e sevizie da parte della sbirraglia e dei medici, mostrando il vero volto dell’ “umana e solidale” Europa. Allora come oggi, manifestiamo tutta la nostra solidarietà e complicità, con la speranza di creare insieme forme di autorganizzazione dal basso tese a riappropriarci insieme delle nostre vite, contro il ricatto e il depauperamento economico ed esistenziale che subiamo quotidianamente. Quindi il 4 agosto scenderemo nuovamente con loro per le strade per opporci a tali politiche e sovvertire il clima da guerra tra poveri, che la sovrastruttura vorrebbe insediare tra i ceti meno abbienti creando percorsi solidali di resistenza.

20 luglio: il sangue dei/lle compagn* e lo Stato terrorista

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Il 20 luglio è una data segnata dal sangue, una giornata ove lo Stato in due occasioni ha mostrato il proprio volto più crudele ed infame, quello dell’assassino. Due eventi l’hanno tristemente segnata, che pur essendo lontani nel tempo e nello spazio sono legati dal medesimo tragico destino:

– 20 luglio 2001; Genova, dopo un corteo più volte represso da parte delle FO con mezzi cruenti come cariche violente e uso di armi chimiche, inebriate dall’odore del sangue le forze statali andarono alla ricerca di un morto. Nonostante la resistenza e i contrattacchi da parte dei/lle compagn*, tra cui Carlo Giuliani, la mano sbirresca sparò facendo cadere inerme il corpo di Carlo sull’asfalto.

– 20 luglio 2015: Suruc, Turchia. Durante una conferenza stampa della Federazione delle Associazioni dei Giovani Socialisti sulla repressione turca verso coloro che cercavano di portare solidarietà al Rojava (Suruc è il centro turco più vicino alla Siria), esplode una bomba facendo 32 morti mentre un’autobomba al confine con il cantone di Kobane fa altre vittime tra le forze di autodifesa curde YPG.

In entrambi i casi, la violenza statale ha cercato di sopprimere la minaccia di un movimento di rivolta collettivo, che poteva fungere da minaccia al proprio potere esercitando il dominio anche sui corpi dei/lle nostr* compagn* (basti vedere il massacro svoltosi nella scuola di Diaz o le conseguenti torture nel carcere di Bolzaneto). La guerra protratta dalla sovrastruttura dominante ai danni di qualunque individuo o collettività rivoluzionaria, non si arrestò allora, anzi fu solo l’inizio di una repressione più dura che qui in Italia come lì in Turchia non avrebbe portato che ad un inasprimento delle misure liberticide. Oggi c’è ancora chi paga con la propria libertà quelle giornate a Genova, come in Turchia e in Siria c’è chi ancora paga con la propria vita per difendere il progetto rivoluzionario del Rojava e del Bakur. Lo Stato non sta facendo altro che affinare le proprie armi per espandere il proprio dominio basato sul terrore (con la retorica del “nemico interno”), sulla morte, sull’impoverimento e sulla devastazione e tocca a noi creare la resistenza al suo avanzamento, coniando un nuovo linguaggio rivoluzionario e aprendo prospettive di vita rivoluzionarie creando un nuovo immaginario destinato a sovvertire quotidianamente il dominio che soffoca le nostre esistenze; imparando dal loro esempio che è la solidarietà a creare territori fertili per l’insurrezione. Perché rifuggendo la retorica movimentista che spesso si rende partecipe e complice del Potere attraverso la propria inerzia, siamo consapevoli che è nel solo campo della lotta, con i nomi dei/lle compagn* cadut* e arrestat* sul sentiero della libertà incisi sui nostri cuori portando con noi la stessa fiamma che ardeva in loro, che ess* non diventeranno meri martiri nell’iconografia rivoluzionaria venendo espropriati della propria individualità, bensì ess*, il loro esempio e i loro sogni vivranno in noi e nelle nostre lotte contro quella violenza che subiamo quotidianamente attraverso le istituzioni e i suoi tirapiedi.

Nicola Chiaromonte e la “terza via” libertaria

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Nell’epoca moderna, ci ritroviamo quotidianamente bombardati da un flusso inarrestabile di informazioni, che danno forma all’immaginario collettivo, derivante dalla Società dello Spettacolo, la quale forgia lo strumento par excellence del dominio: la neo-lingua. Attraverso essa prendono forma differenti narrazioni, tutte utili al proseguimento del dominio e al suo continuo sviluppo. Quindi la storiografia ufficiale non diviene altro che un’ode allo stesso potere, ove qualunque modo di vivere o soggetto che non rientri negli schemi normanti della società capitalista, viene confinato nel limbo dell’anti-storia ove come dannati marchiati dalla condanna divina (della Collettività e dello Stato) vengono etichettati come folli, fanatici, eretici e tutt’una serie d’epiteti volti a denigrare il proprio vissuto reso una rivolta permanente contro il sistema dominante. Tra questi vi è anche un uomo anarchico, lucano, dimenticato dalla sua terra, spesso sotterrato nel passato, relegato alla sua epoca o in altri casi reso partigiano e burattino delle fila di chi faceva uso della sua parola o dei suoi scritti per sostenere la propria causa; il suo nome è Nicola Chiaromonte. Se oggi tenteremo di ridargli quella luce che gli fu defraudata e daremo voce alla sua vita e alle sue parole, è per far sì che la nostra terra – la sua terra – riacquisisca quella forza e quella consapevolezza perduta, che riveda quanto sangue è stato versato sui sentieri che percorre quotidianamente, sangue di coloro che vissero l’avventura dell’esistenza opponendosi a qualsiasi ordine e che possa finalmente scuotersi da quelle catene che gravano sul suo corpo martoriato dai colpi dell’amara rassegnazione ricoperta con una melliflua superstizione (ove con essa intendiamo anche qualsiasi tipo di dottrinarismo e fideismo politico). Nicola Chiaromonte nasce in un piccolo centro del Vulture, Rapolla, il 12 luglio 1905 da famiglia borghese. Trascorse la propria adolescenza a Roma, ove si laureò in giurisprudenza. In questi anni simpatizzò per il “diciannovismo” a causa del suo forte senso antidemocratico, ma se ne distaccò subito approdando a posizioni marcatamente antifasciste. A causa di quest’ultima svolta politica, nel ’34 fu costretto a rifugiarsi a Parigi perché fu segnalato dalla sbirraglia fascista per atti terroristici avendo progettato l’assassinio di Mussolini. In terra francese fa la conoscenza di Andrea Caffi – attraverso il suo amico universitario Alberto Moravia – con il quale strinse un forte sodalizio e fu per lui un grande maestro. Insieme si unirono a Giustizia e Libertà, pur avendo sempre un atteggiamento distaccato e critico nei suoi confronti, vedendo in essa un ennesimo tentativo di ricostruzione della democrazia liberal-borghese. Caffi e Chiaromonte, tentarono di dare un diverso indirizzo a GL, infatti fu in questo periodo che Chiaromonte scrisse la sua critica al totalitarismo individuando le sue radici in ogni forma politica che vede come suo punto di riferimento lo Stato e il rifiuto dei partiti di massa, giungendo ad un connubio tra il primo e il soggetto-massa attraverso un forte militarismo statuale, la cultura di massa e il culto della violenza; così da sviluppare una concezione fortemente antistatale (criticando anche lo stesso concetto di Stato e la sua forma liberal-democratica) e a tratti individualista. Non a caso Chiaromonte nel suo Per un movimento internazionale e libertario afferma che GL più che antifascista, sarebbe dovuto diventare un movimento antitirannico e antistatale. La rottura con questi ambienti fu inevitabile. Dopo una breve parentesi nel Partito socialista in esilio, andò a combattere come volontario la guerra civile spagnola, unendosi all’Escuadrilla España di Malraux. Qui, la disfatta della rivoluzione lo segnò profondamente e il ruolo svolto dal PCI e dalle forze sovietiche per sabotarla, fecero crescere il suo anticomunismo. Una volta rientrato in Francia, a causa dell’invasione tedesca dovette subito fuggire prima in Algeria, ove diventò amico con Albert Camus – il quale ebbe molta importanza per lo sviluppo del suo pensiero – e poi negli Stati Uniti dove entrò in contatto con gli esuli antifascisti e conobbe Hannah Arendt e Dwight Macdonald. Con quest’ultimo e il suo inseparabile amico e maestro Caffi, lavorò alla rivista “Politics” al fianco d’importanti anarchici del tempo sia statunitensi che europei, come Paul Goodman e lo stesso Camus. Fu in questo periodo che Chiaromonte iniziò a sviluppare dalla lettura degli individualisti americani, di Proudhon, di Herzen e Tolstoj, la cosiddetta “secessione”. Con essa intendeva una via nonviolenta e gradualista rivoluzionaria, che attraverso la costituzione di “fratrie” (o gruppi di affinità) si iniziassero a sperimentare dal basso altri modi di vivere, riappropriandosi dei propri spazi e dando luogo a relazioni egualitarie e a comunità che potessero sovvertire lo status quo attraverso una “rivoluzione silenziosa”.
“Da questa società — da questo stato di cose — bisogna separarsi, compiere atto pieno di eresia. E separarsi tranquillamente, in silenzio e in segreto, non da soli ma in gruppi, in ‘società ’ autentiche le quali si creino una vita il più possibile indipendente e sensata, senza alcuna idea di falansterio o di colonia utopistica… Sarebbe una forma non retorica di contestazione globale”. Tali teorie furono più volte esposte dai teorici europei nei propri ambienti, ma queste vennero continuamente rifiutate mentre furono concretizzate da parte degli anarchici statunitensi con gli stessi Goodman e Macdonald durante le proteste del ’68. Chiaromonte fece ritorno in Italia solo alla fine della guerra, e nell’immediato dopoguerra con Silone fondò la rivista “Tempo presente” e fece il critico teatrale per L’Espresso. Durante l’ascesa dei movimenti studenteschi, entrò in polemica con essi, apprezzando sì la costituzione di un simile movimento rivoluzionario, ma evidenziando in esso i limiti dovuto al culto della violenza e dell’odio esaltato attraverso figure come il Che, Mao e Castro, vedendo in esso anche nient’altro che un ennesimo tentativo di una rivoluzione tesa ad appropriarsi del potere e quindi con il solo fine del cambiamento della classe dominante. Chiaromonte tentò sempre di spronarli attraverso i propri scritti ad osare e desiderare di più, invitandoli a seguire la sua linea nonviolenta attraverso la costruzione di una contro società libertaria che avrebbe dovuto riprendersi i propri spazi dal basso attraverso un vivere diverso, sbarazzandosi poi della società di massa e capitalista spiegando che per lui l’importante è “essere eretici, oggi, separati dalla massa, chiusi in cerchie ben definite e tenute insieme da idee e interessi comuni”; e aggiungendo che “il rapporto di queste cerchie o gruppi con la società ‘in genere’ e lo Stato dev’essere di distanza, di partecipazione minima, di scepsi e critica ma non di rivolta. Perché lo scopo di tali ‘fratrie’ è di ricostituire società giuste, anzi di ricostruire dalle fondamenta una società, sic et simpliciter. Tali ‘fratrie’ hanno quindi, per cominciare, il compito di stimolare la società a passare dalla politica intesa come realizzazione di un assoluto Bene alla morale come misura e limite dell’azione politica, nonché come distanza da mantenere continuamente fra l’idea di comportarsi con giustizia verso gli altri e l’azione politica come mezzo per la realizzazione di una giustizia obiettiva impossibile”. Quindi il mezzo per giungere a tale società non è la violenza bensì ”la prima cosa è dire ‘no’, e ritrovarsi con i pochi (inevitabilmente pochi) pronti a dire ‘no’ e a resistere; la seconda è cercare i modi della resistenza nella direzione del rifiuto d’obbedienza, della resistenza passiva, del sabotaggio silenzioso, e non sul terreno della violenza, sul quale si è certi di essere sconfitti; la terza, infine, è di non cercare il successo rapido e vistoso, ma sapersi ritirare nell’ombra e preparare lentamente il momento in cui, come diceva Proudhon, ‘le pietre si solleveranno da sole’”. Nicola Chiaromonte continuò a scrivere fin alla sua morte avvenuta nel ’72, sempre in continua coerenza con il proprio pensiero e continuando ad avere un atteggiamento distaccato e critico verso qualunque forma di organizzazione politica. Crediamo che la sua figura e soprattutto il suo pensiero, oggi possano essere semi fecondi per sperimentare forme innovative del vivere rivoluzionario. Chiaromonte inoltre con la sua critica allo statalismo, al nazionalismo, al liberalismo e al totalitarismo può essere molto utile nell’epoca in cui assistiamo all’ascesa dei nazionalismi e dei vari fascismi i quali danno vita a forme d’ideologia identarista contrastando ogni sorta di alterità. Ma egli offre anche buoni spunti a quello spettro che viene chiamato Movimento, il quale è ancora succube dei rimasugli borghesi della volontà di potenza, caratterizzato ancora dalla miseria del comunismo e del marxismo e da un forte attaccamento dottrinario e settarista ad esso. Chiaromonte, nonostante le divergenze di pensiero che possano esistere tra noi e lui, può insegnarci a sbarazzarci di tutti i fantasmi del determinismo, dello storicismo e di qualsiasi idealismo o schema precostituito che soffocano ancora gli individui e il vivere quotidiano, dando un nuovo senso a quest’ultimo usando come mezzo la politica vista come mezzo artistico nel quale – come nella concezione camussiana – prende ampio posto la creatività ludica del soggetto e la sua liberazione libidica attraverso essa, dando respiro anche alla parte più umana e naturale dell’individuo: quella fatta di sogni, desideri, bisogni ed utopie.

L’Unico stirneriano come ricerca della differenza – Alfredo M. Bonanno

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“In Stirner c’è una concezione del superamento legata alla dimensione hegeliana. In Hegel il concetto di superamento (Aufhebung), è un concetto dialettico, in cui la dimensione superiore riassume e annulla nell’àmbito della sintesi, appunto per sua natura superiore, quelle che prima erano la tesi e l’antitesi. L’unico riassume, con tutte le sue capacità, questo concetto: il concetto di movimento, di ribellione come superamento. È possibile in effetti un superamento? Oppure oggi – specialmente dopo le dolorose vicende del secolo scorso – le guerre, i genocidi, non soltanto passati, ma presenti, quello che la realtà ci pone sotto gli occhi continuamente (pensate alla situazione dei paesi della ex-Jugoslavia), la miseria, la spaventosa mostruosità umana, che cosa l’uomo è capace di fare, cose che sembravano scomparse per sempre e che invece ritornano sistematicamente sotto gli occhi di tutti, oppure oggi si deve per forza concludere con l’idea che niente viene effettivamente superato? Di certo, nel senso hegeliano, un vero e proprio superamento non è possibile.
Cosa si nasconde dietro il concetto di Aufhebung, di superamento dialettico del reale, se non il tentativo spaventosamente ideologico di nascondere la barbarie in nome di un progresso definito che viaggia tranquillamente verso i futuri destini gloriosi dell’umanità. Quando Giovanni Bovio diceva: “Il futuro è l’anarchia”, faceva un’affermazione di fede, esprimeva un desiderio sotto forma affermativa. Nulla di più. Chi può garantire che il futuro sia dell’anarchia e della libertà? Invece il futuro continua, come il presente, a riservare terribili condizioni di mostruosità, di oppressione, di sfruttamento, che sembravano scomparse per sempre.
Non possiamo pertanto accettare il concetto di movimento, di superamento, il concetto del ribelle che supera la propria condizione e che porta dentro di sé e costruisce, e realizza, un mondo definitivamente liberato. Ma continuamente in lui c’è un mondo che conquista e perde la libertà, che la riconquista e la perde ancora una volta, che può sempre riconquistarla e riperderla, perché in effetti non possiamo utilizzare il concetto hegeliano di Aufhebung, ma dobbiamo sostituirlo con il concetto niciano, heideggeriano, di Überwindung, di oltrepassamento. Io spenderei, se mi consentite, una parola su questa radicale differenziazione.
Pensante che il concetto di Übermensch, utilizzato da Nietzsche, è stato sempre tradotto con la parola “superuomo”. Ora, di certo, non è accettabile l’ipotesi di sostituire questa traduzione con una più adeguata, più esatta. Almeno per quel che riguarda l’àmbito delle opere di Nietzsche, la parola “superuomo” deve restare così com’è, se non altro in nome di un secolo di errato lavoro filologico e di pratico utilizzo del termine, con tutti i suoi equivoci. Ma, almeno in sede di analisi, uno sforzo si può fare. Il significato esatto del termine niciano Übermensch, non è quello di “superuomo”, ma di “oltreuomo”. Difatti non c’è niente che superi l’uomo, nel senso hegeliano. C’è però qualcosa che può andare oltre l’uomo e, se pensiamo che in tedesco Unmensch vuol dire “mostro”, “disumano”, ma particolarmente “mostro”, abbiamo allora un rapporto tra Unmensch e Übermensch, tra “disumano” e “oltreuomo”. Nel mezzo c’è il concetto di Überwindung, ossia di “oltrepassamento”. “Oltrepassamento” significa pertanto un particolare modo di superamento, modo in cui nulla viene superato, in cui nulla scompare, ma quel Windung in tedesco vuol dire esattamente “contorcimento”, qualcosa che non riesce a stare fermo a causa di una pulsione interna, una specie di “muoversi nel bisogno” nel tentativo di star meglio, come di un malato che si giri nel letto del proprio dolore, ed è questa Not, questo bisogno che caratterizza il concetto di oltrepassamento. L’uomo non si ribellerebbe se non avesse questo stimolo del bisogno. […] Questi concetti che ci vengono dalla filosofia successiva a Stirner sono importanti anche per capire Stirner. In fondo però la cosa più importante per noi non è tanto capire Stirner, filosofo fra i filosofi che, al momento opportuno, dobbiamo per forza mettere da parte, quanto capire la realtà in cui viviamo, decidere cosa possiamo fare, come possiamo agire. Adesso possiamo capire che legandoci a un concetto standardizzato di superamento dialettico, nel senso hegeliano, diventiamo più tranquilli (Bovio, la storia, ecc.): la realtà lavora al nostro posto, la talpa scava, dobbiamo solo aiutarla. A causa di questa maggiore tranquillità, possiamo anche restare alla finestra e aspettare che qualcuno si ribelli al nostro posto.
Invece, se partiamo dal concetto che il “mostro” sta accanto a noi, è vicino a noi, sta dentro di noi, se non facciamo attenzione a che questo “mostro” non si impadronisca di noi e di quelli che stanno accanto a noi, vicino a noi, non possiamo veramente discutere e parlare in termini di rivolta dell’individuo, e non possiamo fondare in modo corretto, oltre che operativamente significativo, la distinzione tra rivolta e rivoluzione. Perché tutto quello che Stirner esprime nei riguardi della rivoluzione, nella dimensione del superamento hegeliano, ricade sulla rivolta, annulla la rivolta e la riconduce a una dimensione istituzionalizzata. In effetti, non è il “sonno della ragione a generare mostri”, quanto la ragione stessa. Adolf Hitler, i nazisti, non erano soli, avevano a fianco la gran parte dei Tedeschi che aspettavano senza reagire che si sviluppasse una gestione del potere estremamente mostruosa, ed erano persone molto razionali, molto hegeliane. Alfred Rosenberg e il nostro Gentile, con il suo famoso discorso di Palermo sulla “virtù morale del manganello”, erano persone ragionevolmente hegeliane. Quindi, se questa coabitazione col mostro è chiara davanti a tutti, non bisogna per questo abituarsi al mostro, familiarizzare col mostro, ma dobbiamo fare qualcosa perché questo “mostro” resti se non altro circoscritto e venga conosciuto, denunciato, capìto nei limiti del possibile, e non semplicemente dimenticato, trascurato, o peggio edulcorato, vestito con gli abiti del progressismo democratico.
Se dobbiamo fare questo, dobbiamo anche cercare di capire che abbiamo un compito nella rivolta che non è soltanto quello di trovare un esempio storico, ma quello di cercare il metodo. E il metodo della rivolta è quello di puntare alla differenza, trovare quello che è differente, non solo quello che è differente da noi, ma quello che è differente dalle convenzioni che ci vengono imposte come uniformazione dell’esistente, come amministrazione del già dato, del già acquisito. E questa ricetta della differenza è una ricetta che ci può portare molto lontano, in quanto in fondo ognuno di noi ha paura della differenza.
Quali sono gli strumenti che ci permettono di operare questa ricerca sulla differenza? Certamente non la ragione. Questo non vuol dire che bisogna essere irragionevoli, lasciarsi andare soltanto al sentimento, al giorno per giorno, essere privi di qualsiasi progettualità per il futuro, ma al contrario che bisogna alimentare sospetti nei confronti della ragione. Per cui non possiamo accettare la ragione come unico strumento di guida nella costruzione del nostro futuro, nella costruzione della nostra ribellione, nella dimensione rivoluzionaria che può essere costruita al di là della rivolta.
Quindi ricerca della differenza, ma ricerca della differenza attraverso quelle che Blaise Pascal definiva “le ragioni del cuore”. “Il cuore ha ragioni che la ragione non comprende, bisogna allora fare nostre le ragioni del cuore”, diceva. Queste ragioni del cuore ci fanno capire che c’è una simpatia per l’altro, però questa simpatia ci porta a far vedere che nell’altro, nel diverso, c’è qualcosa anche di noi, qualcosa che riusciamo a leggere in filigrana, mentre in noi la lettura di questo “qualcosa” risulta più difficile perché ci sono le “cristallizzazioni dei fantasmi” di cui parlava Stirner che la impediscono. Nei confronti degli altri siamo spesso molto più vigili. Ma, se noi limitiamo la lettura dell’altro, in quanto differente da noi, per paura, per conformismo, per accettazione del di già dato, la capacità di identificare la differenza non l’abbiamo più.
Adesso però un ultimo punto: se la conoscenza dell’altro, nell’àmbito dell’egoismo stirneriano della costruzione dell’unico in base a quello che si è detto prima, è ricerca della differenza, in fondo, se noi esaminiamo (su questo concetto si badi bene c’è tutto un dibattito oggi, e anche abbastanza controverso), se noi esaminiamo, dicevo, il concetto di differenza, restiamo sempre nell’àmbito del quantitativo. Riflettete un attimo su questa affermazione. Apparentemente la differenza si presenta come concetto qualitativo, ma la nostra coscienza cataloga immediatamente tutti questi segnali in arrivo, li trasforma in senso quantitativo, li colloca in una dimensione del di già conosciuto: cioè, in altri termini, che cosa fa? Se questo è diverso, dice la coscienza, io non lo capisco, però, entro certi limiti, lo catalogo e lo accetto. Perché lo accetto? Perché sono tollerante, perché il diverso non va respinto, perché il nero non deve fare paura, perché il razzismo è condannabile, ecc., io riassumo tutti questi concetti e li catalogo. Ma cosa sono tutti questi concetti? Sono fantasmi. L’antirazzismo è un fantasma. Com’è che tutto questo può non diventare un fantasma? […]Noi siamo ancora razzisti quando tentiamo di fare diventare il nero come noi, civilizzato come noi. Questo è razzismo. Non solo il razzismo del nero linciato, ma è razzismo anche il nero abbassato al livello della nostra civiltà presunta superiore. Questo è anche razzismo. Quindi, il mostro che dorme nel nostro stesso guanciale è molto più complesso di quanto non si trovi nelle schematizzazioni delle santità.
Ognuno con le sue diverse differenze. Perché il primo movimento della rivolta è la ricerca della differenza. Il nero è nero, non è bianco. Cercare di farlo diventare bianco è razzismo.
Nel momento in cui io non mi limito alla ricerca della differenza, ma faccio il passo successivo e fondamentale, travalico dalla differenza all’affinità, cerco di capire che cosa nella differenza c’è di simile a me, di affine a me, che cosa posso costruire con l’altro. Non solo quindi ricerca della differenza, il che sarebbe ancora un agire circoscritto in direzione quantitativa, e quindi ulteriore, tediosa, ricerca del fantasma, ma dimensione della ricerca dell’affinità: struttura finalmente libera del pensiero (entro certi limiti poiché il “mostro” coabita sempre là vicino a noi, si corica e dorme sul nostro stesso guanciale), capace di costruire insieme agli altri qualcosa nell’affinità.
Quindi, se la ricerca dell’affinità come incontro è fondamento, significato, lettura essenziale della differenza, rifacendo il percorso inverso e rileggendo dall’inizio il discorso de L’unico e la sua proprietà, la costruzione dell’unico è possibile solo nella ricerca dell’altro e nell’affinità con l’altro. Qui non regge, secondo me (credo di essere il solo a sostenere una tesi del genere, quindi pensate un poco quanto può essere accettata dagli altri), qui non regge l’annoso e inutile dibattito diretto a fissare una discriminante separazione tra comunismo e individualismo. Perché, se l’individualismo è difesa dell’individuo e costruzione dell’unico, accennata in modo splendido e considerevolmente approfondito da Stirner, se l’individualismo stirneriano significa tutto questo, lo significa perché in fondo non si differenzia dal concetto di comunismo anarchico, perché se lo sbocco dell’individuo visto da Stirner, se l’unico significa libertà dell’individuo, anche il comunismo anarchico significa libertà dell’individuo. Qualunque altra definizione di comunismo ha soltanto il significato di oppressione e di sfruttamento.”

[Conferenza tenuta all’Università di Firenze, Facoltà di Filosofia, il 13 gennaio 1994. Trascrizione della registrazione su nastro]

Estratto dal testo “Teoria dell’individuo. Stirner e il pensiero selvaggio” di Alfredo M. Bonanno